La tendenza a classificare cose e situazioni, che si tratti della propria identità, del tipo di corpo o delle preferenze estetiche, è una parte naturale della vita online.
Le persone hanno un debole per nominare fenomeni digitali sfuggenti e TikTok ha solo accelerato l’uso di una nomenclatura estetica carina. Tutto ciò che è vagamente popolare online deve essere definito o decodificato e, in definitiva, ridotto a un insieme di vibrazioni commerciabili con un’etichetta kitsch.
Il mese scorso, Rachel Tashjian, fashion news director di Harper’s Bazaar, ha dichiarato che “stiamo vivendo una psicosi di massa che si esprime attraverso i rapporti sulle tendenze”. Nessuno è più sicuro della differenza tra “tendenza” e “informazione virale”. La distinzione però non sembra avere importanza, dal momento che TikTok – e il mercato dei consumatori – richiedono novità e quantità.
TikTok tira fuori dall’oscurità l’estetica digitale di nicchia e la offre al pubblico. Mentre i componenti estetici un tempo erano parte integrante della formazione delle sottoculture tradizionali, oggi hanno perso ogni significato in questo paesaggio visivo guidato da algoritmi. Immagini e atteggiamenti sottoculturali vengono invece raggruppati sotto un’etichetta onnipresente e indefinibile di “tendenza virale” – qualcosa che può essere demistificato, imitato, venduto e acquistato.
Il “Trend Brain” come lo definisce Terry Nguyen, ci incoraggia a semplificare tutto online in qualcosa di acquistabile, comprensibile o etico (e quindi degno di consumo). I consumatori sono lasciati coinvolgere dagli indicatore che definiscono quanto qualcosa è cool.
Oggi, il problema è il fatto che i consumatori moderni sono bombardati da un flusso infinito di tendenze irrilevanti di cui prendere nota: navi di marketing per prodotti che rientrano in un paradigma privo di significato. Se tutto è trend, nulla è più trend.