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Podcast, media e fake news: come combattere la disinformazione con le storie

podcast

In un ambiente comunicativo affollato come l’infosfera, l’agguato della notizia falsa è imminente. La faccenda è critica, nel senso che in presenza di crisi (climatica, pandemica, geopolitica) si acuisce e diventa ingombrante. Gli attori internazionali più influenti si sono ormai attrezzati con osservatori e studi: dall’UNESCO  alla NATO fino al vigoroso sostegno europeo per combattere la disinformazione con un’ampia selezione di progetti.

Anche l’Italia si è dotata di strumenti più idonei a gestire la sfida della disinformazione, come dimostra il report dei Digital Minister del G20. Pochi mesi prima, l’EDMO (European Digital Media Observatory che ha come lead partner l’Istituto Universitario Europeo di Fiesole) ha dedicato una settimana a questo tema. Dai panel, che hanno convogliato le riflessioni di 500 partecipanti, è emersa una conclusione piuttosto unanime: politici, cittadini, giornalisti, accademici, cittadini e piattaforme devono cooperare. Un approccio olistico, multidisciplinare e variegato, come del resto sono le strade infinite che la manipolazione dei fatti può percorrere.

Fiducia e scarsa attenzione aumentano il rischio

A preoccuparci, in questo momento, sarebbero i podcast: esattamente per il carattere di oralità che contraddistingue il medium, lo spazio per la disinformazione è ampio. Valerie Wirtschafter, PhD in Scienze Politiche all’UCLA, ha condotto una ricerca su un campione di 8000 episodi, confrontando la trascrizione testuale con un database di dichiarazioni di natura politica fuorvianti. Ne è emerso che più di un decimo degli episodi contiene informazioni ambigue, su temi divisivi come le elezioni, l’immigrazione o l’aborto.

Apparentemente, i caratteri che assicurano il successo del formato podcast sono incompatibili con una forma di “moderazione” esterna: se ne perderebbe la naturalezza, il carattere spontaneo della confidenza in puntata. E tuttavia, proprio questo carattere di intimità che contraddistingue l’ascolto rende possibile una sospensione critica del giudizio. Sento questa voce, provo empatia e perciò mi (af)fido e rinuncio alla funzione della prova.

A volte, più semplicemente, il grado di attenzione che si rivolge ai podcast, nell’epoca del multitasking, è limitato: il contenuto che fruisce attraverso le cuffie è spartito con innumerevoli altre faccende. I podcast servono a riempire quel tempo fisico che altrimenti ci sembrerebbe vuoto, perché disconnesso; allora, le suggestioni rimangono nel retrobottega, pronte a essere richiamati alla mente da altre trappole dell’attenzione.  

Sapersi orientare è difficile per tutti

Tuttavia, i podcast non sono soltanto puro intrattenimento, ma preziose fonti di insegnamento: in  genere, nella top 10 dei podcast italiani ce ne sono almeno due sulla divulgazione storica. A partire dall’America e dagli esempi di successo del NY Times anche il giornalismo “tradizionale” ha sperimentato formati brevi o puntate di approfondimento che però pagano lo scotto della lunghezza, tra le principali ragioni che scoraggiano in Europa l’uso dei podcast per informarsi. Questo dato in Italia trova solo una parziale conferma: secondo Nielsen, è infatti cresciuta la lunghezza media della sessione d’ascolto fino a una durata ideale di 45 minuti.


I competitors delle testate giornalistiche non sono però da sottovalutare, perché tra le informazioni solide e verificabili si insinuano una serie di distorsioni della realtà, incontrollate o volutamente fabbricate e intrecciate al racconto personale o alla discussione poco impegnata dei più noti podcasters. E in questo caso, in un ambiente informativo saturo, la durata dei contenuti è effimera, dice Ortoleva in Miti a bassa intensità: alla lunghezza necessaria per essere generosi di spiegazioni, lo spettatore-ascoltatore preferisce il dato eclatante, in cui la verità della vita del narratore si contamina con l’eccesso.

C’è infine un’altra insidia per la corretta informazione che vuole navigare l’oceano del suono. In Italia, come rileva lo studio di Nielsen commissionato da Audible, 3 giovani su 4, per un’età compresa tra 18 e 24 anni, ascoltano podcast: si parla di quasi 15 milioni di ascoltatori giovani. Nel mondo, segnala Culture next, l’osservatorio di Spotify sui gusti e le tendenze dei Millenial e della Z generation, quasi la metà usa i podcast per informarsi, non solo perché godono di più fiducia rispetto a tv e radio (percentuale che cala in Italia), ma perché il format di storytelling è godibile e diffonde la sensazione di appartenere a una comunità globale (considerazione chiaramente riservata agli ascoltatori che padroneggiano la lingua globale del Regno Unito).

Ma attenzione: lo studio non specifica se le risorse di informazioni sono canali privati di influencers, puntate sponsorizzate da grandi brands oppure gli spin-off delle testate di informazione.

Questi dati rendono preoccupante la disinformazione che striscia in questa enorme varietà di contenuti offerta da Spotify e Apple Podcast. Innanzitutto: il rapporto tra host e pubblico è striminzito, ed è una delle ragioni per cui la radio mangia una buona fetta di ascoltatori più adulti, consentendo una polifonia di voci e la sincronia della presenza, oltre ad avere un grado di interazione maggiore con il pubblico. Ci ricorda Jacques Ellul in The Technological Society che, tuttavia, anche gli adulti, in possesso di maggiori strumenti critici e conoscenze accumulate, confondono la quantità di dati con la qualità e la varietà dell’informazione . A questo si aggiunge il fatto che la ricerca della varietà dei contenuti da parte dell’ascoltatore di podcast è pro-attiva: significa che autonomamente ci si deve imporre di rompere la frequenza di ascolto – favorita dal carattere di serialità delle puntate podcast – per avventurarsi in voci e contenuti meno familiari.

La battaglia dei giornali tra verità e entertainment

Dal punto di vista delle soluzioni proposte, si sono certamente mossi i singoli canali, come il Podcast Brunch Club, per istruire al riconoscimento delle false notizie; istituzionalmente, Apple e Spotify si stanno orientando verso un maggior coinvolgimento dell’audience tramite commenti diretti ai creatori dei contenuti; d’altro canto, l’approvazione o eliminazione di un feed RSS su un podcast non necessariamente andrà incontro a pareri condivisi da parte delle altre host apps.

Ancora una volta, sembra che la lotta alla disinformazione debba essere condotta in campo aperto, con i giornali a misurare le dosi di sperimentalismo e recupero di antiche buone pratiche, non semplicemente per moltiplicare il contenuto, ma per plasmarlo alle nuove regole del gioco.

Se ciò che conta nel buon giornalismo è la verità, essa è sempre dietro a una storia, piccola o grande, individuale o collettiva che sia.

Trattare l’ascoltatore come user e la notizie come contenuto consente di far interagire i prodotti mediatici e la content experience: Sarah Weishaupl, head of product management del giornale austriaco Die Press, vecchio di 170 anni, non nega di aver assunto a fonte di ispirazione  la serie Spotify: A Product Story per guardare al meccanismo di sviluppo di un prodotto diverso dalle notizie, ma che abbiano un margine di contenuto mediatico.

La “vecchia stampa”, perciò, cosa può fare? Il podcast, nonostante il basso grado di coinvolgimento, è altamente personalizzabile in termini di palinsesto: scelgo cosa ascoltare e quando, in base al grado di attenzione che sono disposta a fornire. Non si devono temere i formati che sono considerati logori per altre piattaforme: si pensi alle tribune politiche, sul modello delle debating societies oxfordiane, che non possono funzionare sui canali tv in cui il sensazionalismo aumenta gli ascolti. Bisogna puntare sul confronto diretto e affidarlo all’anchor(wo)man di fiducia, dal tono e dagli accenti riconoscibili, familiari.

E qui arriva il punto cruciale: gli “old media”, alle prese con un ecosistema mediatico in continua trasformazione, devono integrare profili nuovi, capaci di raccontare le storie a partire dall’analisi sociologica, filosofica e antropologica, cioè da quelle scienze dell’umano che tramandano da secoli miti e narrazioni; serve adottare gli schemi della trasmissione orale, perché solo le storie possono soverchiare i confini fittizi tra generazioni. Quel capitale di intimità del racconto potrà servire ai giornali per riguadagnare fiducia da parte degli ascoltatori, ma soprattutto per superare l’indifferenza degli utilizzatori: i giornali ci devono mettere la faccia, e quindi una voce, se vogliono catturare l’audience sui podcast.

Il tempo per i bits e gli approfondimenti seguirà, e con essi le notizie credibili.

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