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Da zone dimenticate a laboratori di innovazione: la rivincita delle aree interne

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In Italia, le cosiddette “aree interne” corrispondono al 60% del territorio. Nonostante in queste zone siano presenti il 52% dei comuni e il 22% dell’intera popolazione italiana, per molto tempo sono stata semplicemente etichettate come “zone fragili” e relegate ai margini del dibattito pubblico. La pandemia però ha cambiato le carte in tavola e il futuro delle aree interne potrebbe riservare molte sorprese in termini di innovazione e impresa.

Cosa sono le aree interne?

Con “aree interne” identifichiamo i comuni più periferici a livello di accesso ai servizi essenziali: salute, istruzione e mobilità. Le aree in cui questi servizi ci sono vengono definiti ‘poli‘. I comuni che distano meno di 20 minuti dal polo più vicino si definiscono “cintura”; quelli che distano oltre 20 minuti rientrano nelle aree interne. Le aree interne si suddividono a loro volta in tre categorie, sempre in base alla distanza dal polo: comuni intermedi, comuni periferici e comuni ultraperiferici.

Con la pandemia, le aree interne tornano in primo piano

L’attenzione verso queste zone è nata una decina di anni fa, nel 2012, grazie al Ministro della coesione territoriale dell’epoca, Fabrizio Barca, che ha istituito la Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI), una politica nazionale innovativa di sviluppo e coesione territoriale con l’obiettivo di contrastare la marginalizzazione e lo spopolamento propri di queste zone. Barca fu il primo che, dopo avere definito queste aree non più “fragili” ma “rugose”, iniziò a vederle e a promuoverle come la grande risorsa del nostro Paese.

Solo ora però, anche e soprattutto a causa del situazione dovuta al covid-19, borghi, piccoli comuni, Alpi e Appennini sono diventati un vero trend sulla bocca di tutti.

Stanchi di dover rimanere chiusi in casa e di poter uscire solo per una corsetta urbana, si è iniziato a riflettere su una nuova concezione di spazio pubblico, sull’urbanistica di prossimità e sul ruolo dei borghi spopolati e delle aree interne.

Nuovi simboli di resilienza

Zone dimenticate che, in pochi mesi, sono diventate non solo il luogo ideale in cui rifugiarsi, passeggiare o fare smart working ma soprattutto il simbolo della resilienza del nostro Paese. E se all’inizio, l’idea era solo quella di ‘scappare’ dalle grandi città per godersi un po’ di brezza primaverile, adesso invece il sentimento si sta trasformando, tra giovani che vogliono tornare, smart workers in cerca del loro posto ideale e sempre nuove idee di impresa.

Idee d’impresa: è ora di modernizzare

Un moltitudine di nuove idee di impresa stanno nascendo nelle aree interne e nelle terre alte: tutte realtà che stanno utilizzando il “territorio” come risorsa primaria per la loro impresa.

Se da una parte si vede un aumento dei lavori a contatto con la natura (dalle guide turistiche a quelle esperienziali, dai giovani agricoltori ai coltivatori di lavanda e di erbe aromatiche), si nota anche un forte incremento di mestieri considerati fino ad oggi come prettamente “urbani”.

Qualche esempio? Gli “architetti dei borghi”, specializzati nell’architettura e nell’urbanistica diffusa e di periferia e gli “sviluppatori di spazi di co-working”, dato che la rigenerazione di spazi abbandonati, unita al bisogno degli smart workers e alla domanda da parte dei nomadi digitali sta diventando una vera opportunità. E non solo: esistono anche i creatori di alberghi diffusi, i progettisti e i travel blogger.

Per non parlare di tutte le nuove possibilità nel settore turistico e legate all’outdoor. Nonostante sia quasi fermo nel resto d’Italia, in queste aree il sistema di accoglienza è in piena sviluppo e non smette di creare format innovativi, spesso legati al lancio di pacchetti che oltre ai normali servizi, offrono la possibilità di sperimentare attività outdoor, trekking, arrampicata, deltaplano oppure esperienze culturali e tradizionali come la lavorazione della lana, la produzione della carta o la colorazione di tessuti. Un turismo lontano da quello di massa, un turismo lento, esperienziale che crea un indotto lavorativo altrettanto sostenibile.

Le aree interne non sono quindi più zone di nicchia e non si focalizzano più solo sull’industria ma possono tornare ad essere finalmente ‘terra di tutte e di tutti’.

Comuni, borghi, unioni montane che finalmente si mettono insieme, trasformandosi in veri e propri laboratori di comunità e di innovazione e che sfruttano gli spazi vuoti e abbandonati come centro per la nascita di nuove imprese e progetti.

Il territorio che non è più un ostacolo ma che anzi diventa la risorsa ideale per il lavoro.

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